Rolling Stones – Sticky Fingers

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“Caro Andy,

Sarei veramente felice se tu potessi occuparti della grafica per il nostro nuovo LP. Qui c’è il disco in anteprima. Puoi fare qualsiasi cosa tu voglia… ah non dimenticarti di scriverci quanti soldi vuoi per il lavoro.

Tuo,

Mick Jagger

Sticky Fingers è un gran album ed il controverso artwork firmato Andy Wharol rende sicuramente giustizia al contenuto del disco. Sì, comincio parlando dell’artwork perché Wharol insieme a Nico formano la costante di questo mini-ciclo di pubblicazioni che ci introdurrà successivamente all’exploit musicale della NY anni ‘70.

Torniamo a noi, siamo ad un punto di svolta per gli Stones che hanno chiuso con la Decca e per la prima volta possono permettersi di curare anche la comunicazione, perciò la parola d’ordine è: sconvolgere. La Decca a dire il vero non si arrende… manca un singolo per poter risolvere definitivamente il contratto, quindi le pietre rotolanti preparano ad hoc l’oscena Cocksucker Blues che naturalmente non verrà pubblicata, costringendo la Decca a ripescare Street Fighting Man da Beggars Banquet.

La copertina di Sticky Fingers viene censurata in un botto di paesi, rimpiazzata perlopiù da immagini con dita femminili che escono dal barattolo e che rappresentano in qualche modo il titolo del disco (dita appiccicose). Viene censurata perché, se il doppio senso della banana rosa con Peel it Slowly aveva scandalizzato, vedersi un jeans con patta abbassabile e con un pistellone rigonfio dentro le mutande rende il tutto nu poco più esplicito.

Ma Andy era questo, un uomo di marketing molto perspicace che ha sfruttato un’altra occasione per far parlare di sé. Joe D’Alessandro si presta a venir fotografato senza troppi problemi ed ecco pronta la cover per Mick.

Il disco è stato registrato nei primi mesi del 1970 – fatta eccezione per Sister Morphine incisa nel 1969 (tagliata da Let It Bleed) con Jack Nitzsche al piano e Ry Cooder alla chitarra – e presenta delle sonorità strettamente legate al blues come ad esempio You Gotta Move (brano tradizionale afro-americano, un delta blues del Mississippi), I Got Blues (una canzone che gli Aerosmith assimileranno totalmente riproponendola in tutte le salse tra ’80 e ’90) e Dead Flowers che ricorda un po’ quel country rock languido di Jackson Browne (da non perdere la cover di Townes Van Zandt)

Succede che per alcuni brani, come per il conclusivo Moonlight Miles, Keith Richards non partecipasse alla parte creativa “non ho avuto niente a che fare con quel pezzo, semplicemente perché non ero lì quando è stato scritto”, o come per Bitch quando Jagger e Taylor la stavano suonando con risultati abbastanza scarsi ed intervenne Richards a metter una toppa e trasformando una nenia in un groove coi controcazzi.

Impossibile, inoltre, non citare due storici cavalli di battaglia come Brown Sugar e Wild Horses.

Il primo è estremamente controverso, difatti il titolo originale sarebbe dovuto essere Black Pussy, ma persino Mick arrivò a pensare che fosse troppo esplicita, perciò optò per un più parco Brown Sugar che – tra i vari potenziali significati – indica anche una qualità di eroina. Questa scelta è un po’ ipocrita vista la pesantezza dei temi trattati nella canzone (santommaso, cunniliculis, troche, strupri, sesso multipersonale).

Lo stesso Jagger affermò che la canzone era il punto d’incontro perfetto e l’apice nella relazione tra sesso e droga, definendola istantanea. Un testo promiscuo che viene sicuramente esaltato dalla struttura musicale, che di fatto va a sovrastare il testo.

Per Wild Horses invece, brano sicuramente molto più emozionale ed intimo, si è sempre scritto e detto che fosse ispirato dalla rottura tra Jagger e Marianne Faithfull, in particolare il passaggio “Wild Horses couldn’t drag me away” che sarebbe la frase detta dalla Faithfull a Jagger al risveglio dal coma. Michelino ha però smentito in seguito, dicendo che la storia era ormai terminata da un bel po’.

Keith Richard a proposito dice la sua “se ci fosse da descrivere il classico metodo di lavoro tra me e Mick, farei l’esempio di Wild Horses. Io avevo i riff e la linea del ritornello, lui ci ha buttato dentro le parole. Come per Satisfaction, Wild Horses è sull’essere a milioni di miglia da dove vorresti essere”

The Stooges – The Stooges

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Prima di avventurarmi nel progetto di Pillole Musicali 8 Bit non avrei mai e poi mai pensato di scrivere qualcosa a proposito di Iggy Pop… con questo fanno 3 articoli su di lui, ma è talmente con le mani in pasta dappertutto che non si può fare a meno di citarlo.

C’è questo gruppo che viene messo sotto contratto con la Elektra (stessa etichetta dei The Doors) e che per una serie di motivi si ritrova catapultato a New York, più precisamente all’interno della Factory. Verrà prodotto da John Cale, produttore già di The Marble Index.

Succede poi che questo gruppo cominci a registrare, e accanto alla figura già austera di John Cale si aggiunge quella di una tedesca dai lunghi capelli corvini che sferruzza e lavora a maglia “a me sembrare che cuesto kruppo è più meglio di Velvet Underground“.

All’epoca Iggy Pop aveva appena 21 anni, non era ancora quell’attrezzo devastato che avremmo imparato a conoscere negli anni a venire, c’era un barlume di umanità in lui che venne di fatto cancellato da Nico. La crucca ne fece il suo toy boy, lo portava ovunque, divenne il suo feticcio; si stabilirà in parte quella connessione speciale che c’è stata tra Iggy e Bowie, dove Iggy si acculturava per osmosi. Di fatto Nico lo prese a ben volere, a dire il vero se ne innamorò, e Iggy in un certo senso pure, tanto da portarsela nella Fun House (un luogo tra derelikt e una comune nella quale gli Stooges vivevano): “era come uscire con un uomo con le fattezze di donna […] era come scoparsi il proprio fratello maggiore”… mhh che bella immagine…

Quindi Nico agisce come una nave scuola, i due trombano come se non ci fosse un domani, Iggy si becca lo scolo e nel giro di poco le cose tra i due non vanno più. Iggy si porterà sempre dietro quell’alone di oscurità che Nico gli ha attaccato (oltre allo scolo).

In tutto ciò, gli Stooges tirano fuori dal cilindro un grande album, dove il rock ‘n’ roll non è ancora animalesco come lo sarà in futuro, risultando più classico, fatta eccezione per We Will Fall dove la mano e la viola di John Cale catapultano l’ascoltatore direttamente all’interno del Banana Album, come avviene anche per Ann, canzone nel quale l’assolo sembra partorito dai Velvet Underground.

Resta comunque il fatto che il disco è veramente figo e trovo I Wanna Be Your Dog spettacolare, con Cale che suona insistentemente la stessa nota al piano (un po’ come farà Bowie per Raw Power) e con Ron Asheton alla chitarra acida distorta capace di sbatterci sul muso un giro di accordi bello cazzuto. La chitarra generalmente traccia una serie di sonorità da emicrania sulle quali si getta la voce di Iggy Pop che ripete in maniera autistica le parole (Not Right), ma l’effetto è piacevole e meno estremo di quanto risulta nei lavori successivi come Fun House e Raw Power.

Ahhh come ti ho rivalutato Iggy!

Nico – The Marble Index

Nico - The Marble Index.jpgNico è un angelo decaduto, troppo bella per essere paragonata ad una creatura terrena, altrettanto austera da apparire indecifrabile. Rifuggiva la propria bellezza, tanto da danneggiarla in ogni modo possibile (soprattutto con tinte nere corvino ed eroina); reputava la bellezza un ostacolo alla propria arte, forse per i suoi trascorsi da modella ed attrice che ne offuscavano l’effettivo potenziale creativo.

Nico è la mia costante – per le relazioni ed i luoghi che ha vissuto – colei che mi consentirà di parlare di New York e dei vari: Bob Dylan (con lui ha avuto una mezza tresca); Rolling Stones (si è trombata Brian Jones ed ha abortito un loro figlio); Jim Morrison (si son trombati per bene, storia di cazzi e cazzotti); Jackson Browne (si è trombato pure lui perché ha scritto qualche brano per Chelsea Girl); Velvet Underground (si è trombata John Cale? Forse); Lou Reed (Lou se l’è trombato e di che tinta); Iggy Pop (per Iggy è stata una nave scuola tanto da attaccargli lo scolo); Leonard Cohen (s’è trombata anche Lenny) e Alain Delon (non parleremo di lui ma se l’è trombato e ci ha fatto un figlio).

Ora non voglio parlare delle varie trombate – anche perché stento a credere che la lista si fermerebbe qui – quanto piuttosto del fatto che Nico era una vera e propria icona (parafrasando il documentario dal titolo NICO – ICON) e punto di riferimento per tanti artisti. Musa e non solo, artista totale, sacerdotessa delle tenebre pronta a sacrificare quanto madre natura le ha dato per farsi carico di un bene superiore: l’arte.

The Marble Index è il secondo disco di Nico – prodotto da John Cale – assume una dimensione differente rispetto all’esordio da folk classico Chelsea Girl – album marchetta, studiato a tavolino da Warhol nel quale Nico interpreta discretamente brani inediti di altri autori. Jim Morrison dopo una breve -seppur intensa – relazione autodistruttiva con la bionda teutonica, la spinge a scrivere dei testi propri e ad assecondare la propria essenza.

Jim Morrison è la scintilla che accende Nico, si narra che il loro primo incontro – dopo del gelo iniziale – cominciò con delle tirate di capelli, schiaffi e classici comportamenti da innamorati. Questo può essere definito come il rito di iniziazione della sacerdotessa e dello sciamano, il resto lo hanno fatto i viaggi nel deserto sfondandosi di allucinogeni.

Quei trip si riversano su The Marble Index, un disco teatrale, cacofonico e gotico, dove la voce di Nico – fortemente caratterizzata dal suo accento – si incrocia continuamente con l’armonium completamente fuori tonalità “L’armonium era talmente fuori tonalità con tutto. Anche con sé stesso. Lei ha insistito nel suonarlo dappertutto così abbiamo dovuto trovare il modo di separare la sua voce il più possibile e trovare un modo per amalgamare il tutto con la pista dell’armonium…. come arrangiatore solitamente si cerca di registrare una canzone e fare una struttura su di essa, ma non era possibile lavorare in questo modo nella forma libera che aveva registrato, rendendo il tutto astratto” ricorda John Cale.

Come scritto è un disco gotico nel pieno significato del termine, ci sono degli eco che ricordano i canti gregoriani, parvenze di musica medioevale e un’idea tetra che serpeggia per tutto il disco dando un’aria di tregenda, dove Nico officia la sua messa personale e solitaria, una solitudine ricercata con decisione. Un disco complesso ed articolato più di quanto appaia.

P.S. Ho scritto questo articolo di notte ascoltando The Marble Index, cagandomi leggermente sotto… quindi se siete suscettibili non ascoltatelo, perché è come sentirsi addosso gli occhi spiritati di Nico per tutta la durata dell’ascolto.

The Velvet Underground & Nico – The Velvet Underground & Nico

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1965 – Dopo la produzione di opere d’arte in serie e svariati tentativi nell’ambito cinematografico, arriva il turno per Warhol e la sua Factory di affacciarsi al mondo della musica. L’attenzione cade sul gruppo capitanato da Lou Reed e John Cale, i Velvet Underground.

Si viene a configurare perciò questo sodalizio artistico che vede Warhol come primo artista produttore di musica. La sua intenzione principale è quella di creare un evento molto simile agli happenings di Cage e dei Fluxus ma in chiave Pop; l’idea conseguente è quella di gestire una nuova tipologia di discoteca in cui una band possa suonare in un ambiente multimediale con delle luci stroboscopiche, dove ci si avvalga delle coreografie e dove possano essere trasmessi spezzoni dei suoi film, su degli schermi multipli a fare da corollario.

In origine la scelta di Warhol cadde su Frank Zappa e i suoi Mothers, ma ce lo vedete Frengo in quell’ambiente patinato fatto di lustrini? Frank quindi declina l’offerta e Warhol punta tutte le sue fiches sui Velvet Underground, i cui componenti frequentano da qualche tempo la Factory. Uno dei padri del marketing moderno capisce subito che tira più un pelo di fica che un carro di buoi, perciò alla presenza funerea di Reed, Cale e compagnia, affianca una delle sue superstar che fa da contraltare con la sua bellezza: Nico.

Si svilupperà subito un rapporto odi et amo tra Nico e Lou Reed, oltre alla relazione sentimentale che si instaurò trai due, Lurìd sentiva in parte usurpata la propria leadership, difatti Nico non doveva fungere da ragazza immagine solo per i live, bensì avrebbe dovuto cantare gran parte delle canzoni all’interno del disco d’esordio dei Velvet.

Prendete ad esempio Sunday Morning, registrata come ultima canzone per volere di Tom Wilson (produttore del disco), è stata scritta su suggerimento di Warhol parlando della paranoia, e Nico avrebbe dovuto cantarla. Solo che quando si trovarono in studio, Lou ci mise la propria voce, cercando di renderla leggera e femminile pur di non farla cantare alla crucca.

Prese vita quindi Up Tight, rinominato successivamente Exploding Plastic Inevitable, spettacolo replicato per quattro settimane con un successo enorme. “Ha inventato il multimedia a New York, cambiando completamente il volto della città. Da allora nulla è rimasto come prima” dirà Lou Reed.

Il clima della Factory ben si addice ai Velvet Underground e viceversa, un ambiente estremamente tollerante dove sono presenti gli emarginati della società di allora come i travestiti, i tossici, gli omosessuali e la gente di strada. Questi soggetti esercitano una forte influenza in Lou Reed che scrive gran parte delle canzoni – dei Velvet Underground prima e della carriera solista poi – ispirato dalla variegata tipologia che orbita presso la Factory.

Nel marzo del 1967 la collaborazione con Warhol da vita al primo disco dei Velvet Underground, nel quale egli partecipa come produttore nominale, limitandosi a produrre in termini finanziari la band e farne da promotore, dando loro carta bianca e pregandoli di cercare di ricreare quell’alchimia e quel sound che tanto lo avevano colpito durante le esibizioni dal vivo del gruppo.

Grande scalpore suscita la copertina ideata da Warhol, una banana su sfondo bianco con una scritta minuscola Peel slowly and See, che invita a tirar via la buccia adesiva della banana, sotto la quale vi è una banana di colore rosa che allude – neanche troppo velatamente – ad un superpisellone pop-art. L’album chiamato The Velvet Underground & Nico è conosciuto oggi col nome Banana Album per l’incredibile forza comunicativa che la copertina possiede.

“stavo lavorando in una casa di registrazione come autore di testi, fin quando non mi hanno chiuso in una stanza chiedendomi di scrivere 10 canzoni surf, così ho scritto per loro Heroin e quando gliel’ho data la loro risposta è stata ‘assolutamente no!'”, questo è il ricordo di Lurìd a proposito di Heroin, uno dei brani più controversi dei Velvet Underground, associato all’uso delle droghe pesanti, così come I’m Waiting For The Man – una delle prime canzoni del disco ad essere registrata – che parla dell’acquisto di una dose di eroina ad Harlem. Altre canzoni provenivano direttamente da alcuni input di Warhol, come la già citata Sunday Morning o Femme Fatale ispirata a Edie Sedgwick e cantata da Nico, o la decadente All Tomorrow’s Parties il brano preferito di Warhol, sempre interpretata dalla sua superstar.

Come non citare in ultimo Venus In Furs, con la viola di Cale che fende l’aria e Lou Reed che canta di sadomaso, sottomissione e bondage, come fosse lo spettatore di un gioco a tre. È la perdizione e la trasgressione che i Velvet vivono nella Factory e che Reed sarà sempre bravo a raccontarci con quel tocco di decadenza che ne ha caratterizzato l’intera carriera.

P.S. sono riuscito a parlare dei Velvet Underground senza citare Brian Eno e la celebre frase sul loro disco d’esordio 8)

Leonard Cohen – Songs Of Leonard Cohen

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Ricordo l’America del Rock (la stupenda raccolta edita da La Repubblica nel 1993 con selezione di Assante, Castaldo, Zucconi, Pellicciotti, Bertoncelli, Placido e tanti altri), il cd 3 che risuona nello stereo: Il Rock Riscopre il Folk. C’è un piccolo cortocircuito in questa raccolta, perché Leonard Cohen è canadese (così come Joni Mitchell) ma c’è lo stesso in quel popò di scaletta. Lo credo bene, come fai a tirarlo fuori da li?

C’è Suzanne, quella stessa Suzanne magistralmente reinterpretata da De André, quella stessa Suzanne cantata da Judy Collins, che aprì definitivamente le porte del mondo della musica a Cohen, finora conosciuto più per le sue poesie che per le canzoni. Cohen era convinto di poter sfondare a Nashville, ma il destino lo dirotterà a New York, in quel focolare artistico chiamato Greenwich Village.

Il primo disco di Leonard Cohen sarà anche quello che la gente ricorderà di più, un successo maturato alla lunga, valutato come merita solo nel corso degli anni, forse perché pubblicato nel pieno periodo della musica politicizzata e del movimento hippy, fatto sta che gli apprezzamenti sono arrivati prima dall’Europa che dagli Stati Uniti (un po’ come avvenne per Jimi Hendrix).

Tornando al brano di apertura del disco, Suzanne, è stata scritta da Cohen nel giro di alcuni mesi, come rivelato da lui stesso: “La stesura di Suzanne, così come per tutte le mie canzoni, ha richiesto molto tempo. Ho scritto la maggiorparte di essa a Montreal – veramente tutta quanta a Montreal – nello spazio, forse, di quattro-cinque mesi. Avevo molti, molti versi. Tante volte i versi andavano per la tangente, avevi dei versi molto rispettabili, ma che conducevano lontano dal sentimento originale della canzone. Quindi, è necessario tornare indietro. È un processo veramente doloroso, in quanto c’è da buttar via un sacco di buon materiale”.

Suzanne Verdall si nasconde dietro la canzone, una vera e propria musa ispiratrice per i poeti beat, sposata all’epoca con lo scultore Armand Vaillancourt. Suzanne viveva in riva al fiume St. Lawrence insieme alla propria figlia, Leonard Cohen andava a trovarla spesso e bevevano del te e mangiavano mandarini “and she feeds you tea and oranges that come all the way from China“. Cohen descrive dei momenti passati insieme e idealizza questa relazione platonica… sarebbe bello dilungarsi ulteriormente su questa canzone e sull’analisi del testo ma dovrei anche raccontare un minimo dei restanti brani.

Come ad esempio, Master Song, la mia preferita “Mi piace cantare una canzone chiamata ‘Master Song‘ è sulla trinità. Ditelo agli studenti: è su tre persone.”, le tre persone sono l’io il tu e lei, parla del rapporto tra padrone e schiavo e di come si evolve sino all’invertimento delle parti. Una canzone che assume una forza considerevole grazie anche all’arpeggio ossessivo, in uno stile che ritroviamo sovente nel resto del disco. La canzone è stata scritta su di una panchina di pietra tra la Burnside e Guy Street, mentre uno dei suoi brani più famosi, So Long Marianne viene composta a cavallo tra due hotel, il Penn Terminal ed il ben più famoso Chelsea.

So Long Marianne è stata scritta in onore di Marianne Jensen, incontrata da Cohen in Grecia dopo che lei si è da poco separata dal marito. Si stabilisce una forte relazione tra i due, Marianne è una vera e inesauribile fonte di ispirazione, tant’è che Cohen offre ospitalità a Montreal a lei e al suo figlio, le dedica anche la sua raccolta di poesie Fiori per Hitler.

Toccante è il commiato tra i due, quando Cohen ha saputo della malattia della Jensen, le ha scritto “So che sei così vicina a me, tanto vicina che se allunghi la mano, penso che possa raggiungere la mia… arrivederci amica mia. Amore infinito, ci vediamo alla fine della strada.”

Si salta di palo in frasca, è un disco che dovrebbe essere toccato in ogni suo punto, ma come al solito mi dilungo e lascio tante di quelle cose che ci sarebbe bisogno di un vero e proprio libriccino per spiegare Songs Of Leonard Cohen. La bellezza di quest’album culmina con One Of Us Cannot Be Wrong, con quel coro stonato finale che offre un tocco di spensieratezza ad un disco eterno.

Dimenticavo di scrivere che il gruppo scelto da Cohen per registrare è quello dei Kaleidoscope nelle figure di Crill, Darrow, Feldthouse e Lindley… arriverà anche il momento di parlare di loro.

Talking Heads – Remain In Light

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I Talking Heads sono in pausa di riflessione, ognuno per i cazzi propri dopo il tour del 1979… chi intento a registrare il proprio album chi a farsi una vacanza e così via. I precedenti sforzi hanno esacerbato gli animi e la sensazione comune è quella di un Byrne accentratore e col pallino in mano. Dopo essersi confrontato con Harrison, Weymouth e Frantz, la voglia di continuare insieme rimane forte, ma con un approccio democratico basato sulla condivisione.

Si comincia a suonare e si registrano le demo, questi tape vengono fatti ascoltare ad un reticente Eno, poco incline a proseguire la collaborazione con Byrne e soci dopo Fear Of Music e More Songs About Buildings and Foods. Diciamo che l’afro-funk riesce a convincere il professorino: un modo secondo Byrne di tornare alle origini, essere meno cervellotici fuggendo dalla paranoia tipica della New York anni ’70.

La sensazione che trasmette Born Under Punches in apertura è che non sfigurerebbe sicuramente in un album come Lodger, nonostante ci sia il marchio di fabbrica di Byrne è impossibile non notare la chitarra di Belew e la produzione di Eno. E’ come se – con Remain In LightEno abbia trovato la valvola di sfogo che non gli è stata concessa in Lodger, di sicuro il suo modo di riuscire a sovrapporre chitarre, basso e percussioni in questo brano rende il prodotto finale indiscutibile.

Non ci sono solo le Strategie Oblique qui, ma anche testi in associazione libera e flussi di coscienza continui – sulla scia di Iggy Pop e il Bowie di Low e Heroes – utilizzati per vincere il blocco dello scrittore seguendo quanto fatto dai musicisti africani: se ti dimentichi cosa stai cantando, improvvisa, non è necessario usare parole sensate.

Woooahhh si apre un mondo! Sulle basi musicali già registrate,  Byrne canta suoni senza senso, onomatopee che – registrazione dopo registrazione – sembrano trasformarsi in parole. Da questo processo nascono i testi di Remain In Light.

Con Crosseyed and Painless continua il funky contaminato da beat africani, anche qui è possibile trovare un parallelismo con Lodger ed African Night Flight, con un accenno di rap come lo stesso Bowie aveva fatto. E’ come se molti discorsi lasciati in sospeso dalla diaspora Bowie/Eno fossero approdati a naturale conclusione – due anni dopo – grazie alla piena collaborazione di Byrne. Un’omogeneità che viene mantenuta con The Great Curve, dove i ritmi vengono estremizzati, annoiando chi ascolta o coinvolgendolo totalmente in questa musica da ballo. Il difetto di questo disco è la durata delle singole tracce, che avvalendosi di riff e pattern ripetuti rischiano di apparire più lunghe di quanto lo siano realmente, proiettando chi ascolta in uno stato di ossimorico straniamento e assuefazione, ancorato unicamente alla voce di Byrne tra la chiacchiera e l’urlato.

A proposito di urlato, Once In A Lifetime è sicuramente il brano più rinomato dell’album che prende spunto da una predica Evangelista. La reiterazione della frase “And you may find yourself” vuol consolidare l’idea del sermone, tante delle frasi presenti nel testo sono state captate e tenute da parte da Byrne mentre le ascoltava nella Radio Maria americana (registrazioni tenute da parte anche per My Life In The Bush Of Ghosts), dimostrando anche in questo caso un modo del tutto non convenzionale di comporre.

Il filo conduttore in Remain In Light è il funky, la situazione lounge oltre che un’ibridazione della world music rodata e messa a punto dal duo Byrne/Eno. Per quanto poi il ritmo scanzonato e l’allegria presente nella prima parte vada pian piano scemando col proseguire del disco nella malinconia di Listening The Wind e in una depressione riflessiva con The Overload.

David Bowie – Lodger

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Tony, Brian e io abbiamo creato un linguaggio di suoni potente, angosciato, a volte euforico. […] Nient’altro aveva il suono di quegli album e nient’altro gli si è avvicinato. Non avrebbe avuto alcuna importanza se non avessi fatto più nulla dopo quei 3 dischi, lì dentro c’è tutto me stesso. E’ il mio DNA.”

Lodger fatica ad arrivare, dopo il tour di Low/Heroes Bowie se ne va in giro per il mondo: Kenya, Giappone, Stati Uniti, è tutto un viaggiare. Il titolo del disco esprime proprio il concetto di “ospite”, in giro e senza fissa dimora, alla ricerca di contaminazioni. I tempi di Berlino sono quasi dimenticati – nonostante Lodger venga considerata la punta del trittico Berlinese. In comune con i precedenti Low e Heroes c’è la band ed il contributo di Visconti e Eno. Al posto di Fripp, alla chitarra solista c’è Adrian Belew, scippato a Frank Zappa dopo un concerto a Berlino dello Sheik Yerbouti Tour.

Piccola Parentesi

*Belew vede in zona mixer Bowie e Iggy Pop, Bowie gli propone di diventare il suo chitarrista per il tour di Heroes e Low (The Isolar II) che sarebbe cominciato due settimane dopo la fine dello Sheik Yerbouti Tour di Zappa. Vanno a cena insieme, destino vuole che Zappa va nello stesso ristorante… Dio ci salvi… Frank si avvicina al tavolo di Bowie e Belew sentendo puzza di tradimento. Il dialogo che ne segue è riportato di sotto:

DB: “Che gran bel chitarrista che hai Frank!”

FZ: “Fottiti Capitano Tom”

Al che Bowie cerca di attaccare bottone provando ad essere ancora cordiale e

FZ: “Fottiti Capitano Tom”

DB: “Non hai veramente nient’altro da dire?”

FZ: “Fottiti Capitano Tom”

Al che Bowie e Belew si alzano e se ne vanno in limo. Bowie col suo aplomb e umorismo britannico liquida la questione con un “Penso che sia andata piuttosto bene!”. E scippo fu.*

Lodger fatica ad arrivare, perché dopo aver vissuto gomito a gomito l’epopea di Heroes, Eno e Bowie si son persi di vista sviluppando visioni musicali non più tanto comuni. Questo sfocia in una acrimonia che non fa bene al disco, facendo nascere un ibrido dall’identità sporca, nel quale le personalità di Eno e Bowie cozzano in maniera prepotente. Eno a differenza delle prime due fatiche entra in maniera più determinante nelle logiche del disco, sia come musicista che come cultore di novità. Mentre le Strategie Oblique sono largamente accettate dopo le sessioni di Heroes, altre tecniche di pensiero laterale vengono difficilmente digerite dai musicisti – annoiando soprattutto Alomar. Creando quel senso di lezione scolastica dove Eno si comporta da professorino.

Lodger fatica ad arrivare, in quanto dopo aver terminato le sessioni delle basi musicali, Bowie fa passare 5 mesi prima di riprendere in mano il progetto e registrare il cantato. Con Visconti e Belew si va a New York a completare il disco, ma gli studi non sono mica come in Europa e l’attrezzatura non è tale da consentire un lavoro ottimale.

Lodger arriva, per quanto critica e principali artefici lo definiscono un incompiuto, per quanto le inimicizie interne abbiano inficiato sul risultato finale del disco, Lodger è un gran bel disco con un potenziale enorme espresso in parte.

Il tema del viaggio – evidenziato anche dalla cartolina dell’artwork – è prodromo di un certo tipo di world music e segue il concetto di motorik intrapreso da Neu!, Kraftwerk e in Station to Station. Così come il riciclo di canzoni passate dimostra una strepitosa attitudine allo studio della diversità.

Red Money è Sister Midnight – scritta durante lo Station to Station tour e donata a Iggy Pop – e che dire di Move On, una versione di All The Young Dudes al contrario ri-arrangiata, ma la figata si raggiunge con la Strategia Obliqua che suggerisce di suonare Fantastic Voyage con interpreti diversi agli strumenti, i musicisti così si scambiano le postazioni ed esce fuori una versione più veloce e decisamente più ritmata: Boys Keep Swinging.

Lodger è arrivato e ha chiuso un cerchio strepitoso che ancora oggi ci fa sognare.

Lou Reed – Transformer

Lou Reed - Transformer

Ci sono tre tipologie di reazioni che si possono avere pensando a Lou Reed: un profano esclamerebbe “Perfect Day!”; un meno-profano “Transformer!”; una persona più o meno preparata direbbe “il co-fondatore dei Velvet Underground!”; un ignorante direbbe “ghi è Lù Rìd nghééé?!”.

Bene ignorante, è il tuo giorno fortunato! Visto che oggi la pillola scelta dallo staff del sito (cioè me) è Transformer – ovvero l’album decisamente più commerciale e celebre di Lou Reed.

In questo caso è coadiuvato dal suo prezioso amico David Bowie – vero e proprio tuttofare in quegli anni – che fa da produttore e presta la propria voce come corista. Il Duca Bianco attuerà in questo caso una vera e propria opera di beneficenza nei confronti di un suo grande mito, quel Lou Reed che lo aveva fortemente ispirato con i Velvet Underground; qualche anno dopo ripeterà un’operazione simile con Iggy Pop, producendogli The Idiot. Bowie ha avuto la capacità di semplificare le sonorità di entrambi, consentendo di recuperare terreno commerciale dopo dei periodi poco fortunati.

Bando alle ciance e partiamo dall’origine di Transformer, che è un album estremamente orecchiabile e veloce da ascoltare, rivestito di glam e pieno di storie che lo rendono un narratore di favole perverse – Reed appare come l’Omero della New York grottesca di fine anni ‘60 e ‘70 – ma soprattutto segna il distacco netto dai Velvet Underground, creatura wharoliana di successo e influenza imponente.

Come già scritto per Hunky Dory, Transformer appare come un greatest hits, ricco di canzoni importanti, tra le quali spiccano: Perfect Day, Walk on the Wild Side, Satellite of Love e Vicious.

Perfect Day è l’inno alla semplicità per antonomasia. Brano arrangiato da Mick Ronson – chitarrista di Bowie, cardine dei The Spiders From Mars e co-produttore dell’album – è il resoconto di una giornata perfetta trascorsa da una coppia, le interpretazioni a riguardo sono essenzialmente due: la prima vuole che la canzone sia stata scritta da Lou Reed in preda alla nostalgia per i momenti trascorsi assieme ad una sua vecchia squinzia di nome Shelley Albin; l’altro punto di vista vuole che la canzone sia rivolta a Bettye Kronstadt, sua moglie dell’epoca sposata per cercare di stabilizzare la propria vita, matrimonio poi naufragato in un battito di ciglia – probabilmente per il cognome impronunciabile della dolce Bettye – che ha poi ispirato le storie narrateci in Berlin.

Walk on the Wild Side è la cronaca cruda e schietta della NY del periodo, quella Grande Mela della trasgressione più totale che aveva il proprio fulcro nella Factory di cui Reed faceva parte fino ad una manciata di anni prima. Ritroviamo perciò i protagonisti di quel momento come Joe Dallesandro, muso ispiratore di molti film di Andy Wharol (Little Joe, tra lui e Reed non scorreva buon sangue), l’attore Joe Campbell (Sugar Plum Fairy), Holly Woodlawn, Candy Darling e Jackie Curtis (rispettivamente Holly, Candy e Jackie, tre trans che bazzicavano gli ambienti wharoliani). Lou Reed riesce a trasportare con dovizia di particolari l’ascoltatore nella wild side, grazie anche ad un accompagnamento musicale ridotto al minimo con un suono del basso rotondo che carica di maggior significato il testo. Testo censurato dalle radio non tanto per via delle tematiche raccontate (come transessualità, sessualità e tossicodipendenza) bensì per il “doo doo-doo” associato alla frase “And the colored girl say” inteso dai perbenisti dell’epoca come un insulto razzista.

La parte di sassofono è stata eseguita da Ronnie Ross, musicista jazz ed insegnante di sax di Bowie durante la giovinezza (sassofonista anche nel brano di chiusura di Transformer ovvero Goodnight Ladies e nel White Album dei Beatles in Savoy Truffle).

Il leit motiv dell’album resta Andy Warhol, che come per Bowie è figura centrale ed essenziale per la carriera di Lou Reed. Facciamo perciò un salto indietro di 4 anni dalla pubblicazione di Transformer, siamo nel 1968, Valerie Solanas – frequentatrice abituale della Factory e femminista radicale, membro della S.C.U.M. – spara un colpo di pistola a Warhol attentando alla sua vita. Nonostante si pensi il peggio, Warhol sopravvive e da quel giorno ha una cicatrice sulla spalla a ricordargli quanto accaduto. Quella cicatrice viene omaggiata da Lou Reed in Andy’s Chest.

Anche per il brano di apertura – Vicious – c’è un simpatico aneddoto da riportare, nel quale Warhol mette il suo zampino rivolgendosi a Reed in questi termini “Hey, sacco di merda, perché non scrivi la canzone su di un violento?”, Luigi Giunco (vero nome di Lou Reed) gli risponde “ma che tipo di violento intendi di grazia?”, ed Andreino gli risponde “Oh, sciocchino, tipo io che ti colpisco con un fiore!”.

Dopo un momentino di imbarazzo, Reed si preoccupa unicamente di riportare fedelmente questa espressione rendendo celebre l’eccentricità di Warhol.

Proseguiamo rapidamente con Satellite of Love che è un brano magnifico, composto durante il periodo dei Velvet Underground anche se in versione più grossolana. Gran parte del merito per la scelta armonica si deve nuovamente al duo Ronson e Bowie che non sono sprovveduti e di musica ne capiscono veramente tanto.

New York Telephone Conversation è una perla di un minuto e mezzo che a mio avviso vale tutto l’album, forse è la canzone che più si avvicina alla musicalità del Bowie di Hunky Dory. Stesso discorso per Goodnight Ladies, una perfetta chiusura retrò che ben si sposa con la varietà sonora espressa in tutto l’album.

Per concludere, la copertina è frutto della capacità fotografica di Mick Rock che ritrae Lou Reed con colori contrastanti che lo fanno somigliare ad un Frankestein panda. In Italia il retro della copertina fu censurata per via di una foto con un tipo che aveva un erezione malcelata dai pantaloni.

Tim Buckley – Goodbye And Hello

Tim Buckley - Goodbye And Hello

Tim Buckley è stato un vero innovatore – termine ampiamente inflazionato al giorno d’oggi – riuscendosi a spingere veramente oltre i limiti fin lì stabiliti, unendo generi distanti tra loro.

A cavallo degli anni ’60-’70 c’era veramente qualcuno capace di apportare delle modifiche sostanziali al movimento, per tale motivo è assolutamente paragonabile a Frank Zappa in termini di contributo al mondo musicale.

Tant’è che lo stesso Zappa assieme al suo manager di allora, Herb Cohen, lo assoldarono nella Straight Records, aiutando Tim a porre le basi della sua carriera artistica con Goodbye and Hello, disco ambizioso per un ventenne di belle speranze e fortemente ispirato a Blonde on Blonde di Bob Dylan.

Tim Buckley è stato un eccelso autore ed un grandissimo cantante; dalla voce fasciante, estesa e capace di mantenere la padronanza di tutte le tonalità. L’acido desossiribonucleico in questi casi non mente mai donando poi a Jeff Buckley una voce divina. Goodbye And Hello nasce proprio dalla fuga dalle responsabilità del giovane Tim, poco dopo il concepimento di Jeff – appena diciottenne – non regge il peso della notizia e si trasferisce a New York – nel Greenwich Village – in cerca del sogno musicale, abbandonando così la compagna incinta e dedicandosi alla scrittura del suo secondo album.

Oltre ad un costruzione musicale complessa presente in alcune canzoni, la voce modulata di Buckley e la sua passione hanno dato una profondità eccezionale ad un disco che riflette le sensazioni negli Stati Uniti dell’epoca: allegria, repressione, violenza, ricerca di libertà; Tutti gli elementi che troviamo nella title-track Goodbye and Hello.

Goodbye and Hello ha un climax assoluto, creato ad arte da una miriade di strumenti che formano atmosfere epiche, medievali, zigane e circensi all’interno di un unico brano suddiviso in diverse sezioni legate tramite la voce di Buckley ed un testo di protesta. Ciò contribuisce ad un livello metafisico difficilmente riscontrabile in altre realtà musicali dell’epoca.

Queste atmosfere vengono richiamate più volte nel corso del disco come in Carnival Song -canzone ipnotica angosciante e monocorde – e Hallucinations.  La ritmica viene esaltata in brani come Pleasant Street – che avvolge in un clima tetro e solenne l’ascoltatore per riprendersi con delle cabrate vocali paurose – e I Never Asked To Be Your Mountain, distinta da un ritmo martellante ed una psichedelica galoppante (canzone reinterpretata assieme a Once I Was dal figlio Jeff per un concerto tributo).

Phantasmagoria in Two è la punta di diamante di questo disco – una delle canzoni d’amore più belle: asfissiante, malinconica, profonda tanto da riempirti e svuotarti mentre la ascolti. E’ un disco sorprendente e confusionario allo stesso tempo, lo spleen che viene trasmesso tramite i brani è anticipato dalla cover dell’album che ritrae un Tim Buckley che sorride con mestizia.

Se non riuscite a comprendere la grandezza di quest’artista, ci penserà Lee Underwood – suo chitarrista storico – a farvi capire il suo contributo:

Buckley fu per il canto ciò che Hendrix fu per la chitarra, Cecil Taylor per il piano e John Coltrane per il sassofono”